Varcare la soglia: luce e ombre dell’esperienza con LSD

14.09.2025

Che tipo di contenitore vogliamo costruire per esperienze tanto profonde?

Questo testo nasce da una talk che ho tenuto al festival Inframundi, a settembre 2025. 

L'ho rielaborato e ampliato per trasformarlo in un articolo, mantenendo però lo spirito di quella condivisione.

L'intento era — ed è — quello di riportare l'LSD al centro di una narrazione più ampia, non solo storica e terapeutica ma anche culturale e rituale. Senza questa molecola, probabilmente non avremmo il movimento psichedelico contemporaneo, né molte delle ricerche e delle pratiche che stanno riemergendo.

Se vi dicessi che forse oggi non saremmo qui a parlare senza LSD? Probabilmente non parleremmo di psichedelia, né di festival, né di nuove terapie. L'LSD è quasi scomparso dal discorso pubblico, offuscato da altre sostanze, eppure è proprio da lì che tutto ha preso forma. È una storia piena di luci e ombre, utopie e proibizionismi, ma soprattutto di esperienze che hanno cambiato profondamente chi le ha incontrate.

Tutto inizia negli anni '30, quando Albert Hofmann, alla Sandoz, riceve l'incarico di studiare l'ergot, un fungo della segale noto per i suoi effetti allucinatori. Non era un dettaglio marginale: nelle zone in cui si consumava più segale — per esempio in Francia — gli avvelenamenti da ergot causavano deliri e visioni. In Italia, invece, il fenomeno era raro, perché si mangiava più grano.

Da quell'ergot, Hofmann sintetizza una serie di molecole a cascata: LSD-1, LSD-2, LSD-3… fino al LSD-25, creato nel 1938. Ma bisognerà aspettare il 1943 perché succeda qualcosa di imprevisto: Hofmann assume 250 microgrammi di LSD-25, una dose enorme, senza sapere che già 50 avrebbero provocato effetti intensi, e vive il famoso "viaggio in bici". In quel momento capisce che ha tra le mani qualcosa di unico: potente, sottile, profondamente trasformativo.

Da lì l'LSD entra negli studi terapeutici. Psicoterapeuti e psichiatri lo usano per esplorare la psiche, sviluppando veri modelli clinici. Tra i nomi che emergono c'è Stanislav Grof, che comincia a Praga e poi approda agli Stati Uniti, portando la sua ricerca sia in ambito accademico che underground. A Esalen, in California, Grof si ritrova in mezzo a un panorama irripetibile: Fritz Perls, padre della Gestalt; Claudio Naranjo; Joseph Campbell. Un ambiente in cui la psicologia, il corpo e il mito dialogavano senza barriere.

Poi la molecola esce dai laboratori, attraversa le università e finisce nella controcultura. Se da un lato questo può far pensare a una liberazione, dall'altro è il momento in cui arriva la repressione. Con la guerra in Vietnam e il clima politico dell'epoca, Nixon e Reagan avviano la "War on Drugs", Ma spesso questo termine viene usato come slogan, senza spiegare davvero cosa rappresenta.


La War on Drugs non è stata semplicemente una campagna contro l'uso di sostanze.


È stata una strategia politica, lanciata ufficialmente da Richard Nixon nel 1971, che utilizzava il proibizionismo come strumento per controllare gruppi sociali considerati "scomodi": attivisti, studenti, neri, comunità controculturali.

Molti documenti successivi — inclusa un'intervista a un collaboratore di Nixon — mostrano come la retorica sulle droghe servisse a giustificare arresti, infiltrazioni, criminalizzazione mirata. Non era la sostanza il problema: erano le persone che la usavano, e ciò che rappresentavano politicamente.

Hofmann rimase profondamente ferito da tutto questo. Nel suo libro LSD. Il mio bambino difficile, confessa la sua amarezza: non perché la sostanza fosse ingestibile, ma perché la società non aveva contenitori adeguati. E non pensava certo alle stanze bianche della psichiatria contemporanea, ma a qualcosa di più antico: culti misterici, riti collettivi, cerimonie in cui una sostanza era solo un passaggio, un ponte verso l'esperienza del sacro.

Ed è qui che entra l'underground. Non i guru, non gli sciamani improvvisati, non i terapeuti che vogliono spiegare tutto. Ma persone che hanno più esperienza e persone che ne hanno meno, che si accompagnano a vicenda. Contesti collettivi che servono a contenere, a dare una cornice. Perché l'LSD non è per tutti: alcune coscienze possono reggere ciò che emerge, altre no.


E quando manca un contenitore, spesso si parla di psicosi o di destabilizzazione, quando in realtà si tratta di esperienze lasciate senza sostegno, senza integrazione.


Allora: che cosa definisce un rito?

L'eccezionalità — un tempo sospeso, fuori dalla vita ordinaria.
La collettività — un essere insieme, anche da esperienze diverse.
Il sacro — non come religione, ma come apertura verso qualcosa che ci supera.

Forse è per questo che molti vedono nei festival psichedelici contemporanei — come il Boom Festival — dei nuovi contenitori misterici. Anche se più commerciali rispetto al passato, chi ci è stato sa quanto ogni sua parte sia pensata per facilitare processi trasformativi. Il cuore resta il dance floor: migliaia di persone che ballano insieme, muovendo la stessa energia, mentre la sostanza risuona dentro. Spazi che esistono per pochi giorni, ma che riescono ad aprire possibilità enormi attraverso estasi, piacere e condivisione.

E qui torniamo a noi. A quelle esperienze intense vissute insieme, che creano legami impossibili da riprodurre nella quotidianità. Legami che già in sé sono una forma di cura.

Ripercorrendo tutta questa storia — dall'ergot alla bici di Hofmann, da Esalen ai festival contemporanei — diventa evidente che l'LSD non è mai stato solo una molecola. È stato un simbolo, un catalizzatore di immaginari, di ricerche, di rivoluzioni interiori e collettive. E ogni volta che una cultura incontra una sostanza psichedelica, si ritrova davanti alla stessa domanda: come la conteniamo?

Gli antichi lo facevano attraverso misteri e riti. Le comunità indigene attraverso tradizioni e sciamani. Noi oggi ci muoviamo tra ricerca scientifica, pratiche underground e spazi temporanei. Nessuna forma è completa; ognuna ha i suoi limiti. Ma tutte rispondono allo stesso desiderio: dare senso a esperienze capaci di cambiare la vita.

Forse un contenitore perfetto non esiste.
O forse il contenitore siamo proprio noi: nei modi in cui ci prendiamo cura l'uno dell'altro, nei legami che si creano, nel trasformare l'esperienza individuale in qualcosa di condiviso, quando ciò che accade dentro diventa parte di una storia più grande.

In fondo, non è questo che fa un rito?
Non la sostanza, ma il ponte che costruisce:
tra me e te,
tra l'umano e il mistero,
tra ciò che siamo
e ciò che potremmo ancora diventare.